Achille Occhetto vent'anni fa sciolse il Partito
Comunista Italiano. Il più grande partito comunista dell'occidente. I ricordi
di quel periodo raccontati dall'allora segretario.
Per Achille Occhetto si è «Sacrificata la ricerca di una nuova identità»
Il 12 novembre
del 1989 Occhetto annuncia lo scioglimento del Pci. Il 3 febbraio del 1991 il
partito si sciolse e nacque il PdS.
Nell'89 impose la Svolta della
Bolognina, nel '91 vinse il congresso che a Rimini seppellì il Pci e diede vita
al Pds, ma anche a Rifondazione comunista. Quel che non torna è che Achille
Occhetto oggi militi nel partito nato da Rifondazione (Sel) anziché in quello
nato dal Pds (il Pd).
Cos'è, una nemesi?
«No, anche se allora non avrei mai
pensato a uno scenario simile. La mia vicinanza a Sel è la reazione a una
situazione stagnante con l'obiettivo di riunificare il centrosinistra. Ma va
detto che Vendola, col suo antistalinismo e la sua fede nel primato della
libertà, non ha nulla a che vedere con la storia del Pci».
Vero, paradossalmente...
«Paradossalmente, ci sono molti più
comunisti nel Pd. Penso a D'Alema e alla sua realpolitik».
Nel '91 si capì quel che moriva, ma
non quel che nasceva. E la mancanza di identità politica riguarda ancora il
Pd...
«E' vero. Con la Svolta lanciammo il
tema di una nuova identità socialista, ma subito dopo il problema della
coesistenza delle diverse anime nel partito fu risolto non con un sano e
definitivo confronto politico bensì con un accordo volto alla spartizione del
potere. E' chiaro che la ricerca del potere per il potere ha sostituito la
ricerca di una nuova identità politica».
Quali furono, allora, le diverse
correnti di pensiero nel Pci?
«Innanzitutto c'erano quelli
contrari alla Svolta che intendevano rifondare il comunismo accreditandosi come
eredi del Pci».
Programma ambizioso...
«E infatti non lo realizzarono.
Anzi: Rifondazione ebbe una lunga fase regressiva rispetto alle innovazioni del
Pci di Berlinguer».
Vi furono distinzioni tra quanti
formalmente la seguirono?
«Certo, vi furono tre diverse
ispirazioni. I riformisti di Giorgio Napolitano puntavano all'unità socialista,
ma io ero contrario perché non ritenevo che il socialismo coincidesse col
craxismo. Se li avessimo assecondati saremmo stati annessi dal Psi e dopo aver
faticosamente schivato le macerie del Muro di Berlino saremmo finiti sotto
quelle del pentapartito».
La seconda corrente?
«Era quella di Veltroni, che voleva
dar subito vita al Pd. Obiettai che di partiti democratici ne possono esistere
diversi, e scelsi quello di sinistra».
La terza?
«Era la mia, e puntava alla
costituzione di una nuova formazione politica che andasse oltre le culture del
Novecento nel solco dell'Internazionale socialista».
Ma non eravate propriamente una
falange macedone.
«No, non eravamo compattissimi. I
più convinti erano Mussi, Petruccioli e nomi simbolici come la Iotti e il
fratello di Berlinguer, Giovanni. Ma anche tra noi c'erano diversi
malpancisti».
Ad esempio?
«Antonio Bassolino e Massimo
D'Alema».
Come lo ricorda, D'Alema?
«Spaventato, disse che a convincerlo
fu suo padre. Ma era chiaro che per lui la Svolta rappresentava il male minore:
non un'occasione, ma una necessità della storia».
Le pesò rompere con Ingrao?
«Ingrao aveva un grande carisma ed
era un eccellente oratore, al congresso di Bologna fu applauditissimo e tutti
ricordano che quando ci stringemmo la mano i nervi cedettero e piansi».
Altri tempi, oggi i partiti nascono
e muoiono senza che nessuno versi una lacrima...
«Vero, oggi non avvertiamo più il
peso delle ideologie, spesso anche delle idee, quasi sempre delle identità e
delle appartenenze. E' logico che si pianga meno. Il rischio, però, è quello di
passare sorridendo da un vuoto all'altro».
E' vero che decise tutto da solo?
«No. La Svolta maturò nell'arco di
un anno: al congresso dell'89 decidemmo di chiamarci Nuovo Pci; in
un'intervista all'Espresso dissi che il nostro punto di
riferimento era la Rivoluzione francese e non quella d'Ottobre; in occasione di
Tienanmen parlai di morte del comunismo. Poi, certo, alla Bolognina decisi da
solo di dire che bisognava cambiare tutto e che occorrevano 'nuove vie'».
Ebbe paura?
«Tanta. Le confesso che temevo di
finire in minoranza».
Cosa ricorda dell'atmosfera di
Rimini?
«Una grande tensione, accresciuta
dal fatto che incombeva la guerra del Golfo su cui avevamo idee diverse. La
campana di un nuovo inizio stava suonando non solo per noi ma per tutti, anche
se molti non la sentivano. Portare il partito dall'Internazionale comunista a
quella socialista era cosa di non poco conto».
Ci riuscì grazie a Bettino Craxi.
«Per la verità, all'inizio Craxi era
contrario. Lo convinsero gli altri leader socialisti europei e alcuni suoi
compagni a partire da De Michelis».
E' possibile che, agli occhi dei
suoi compagni, su di lei abbia pesato la colpa irrazionale di aver sepolto il
mitico Pci?
«Sì, credo che questo sentimento ci
sia stato. Ho più volte avvertito il giudizio negativo di chi irrazionalmente
mi considerava responsabile della fine di un mondo che, con i suoi errori, era
ovviamente caro a tutti noi».
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Il peso del partito nelle urne:
POLITICHE 1987 = 26,6%; Sono le
ultime in cui partecipa il Pci. Segretario è Natta, gli succede Occhetto.
POLITICHE 1996 = 21,6%; La
percentuale del Pds. Vince l'Ulivo: al governo vanno gli ex comunisti, è la
prima volta.
POLITICHE
2001 = 16,6%; I Ds scivolano al minimo, il centrosinistra perde. Nel 1998 il
Pds cambia nome e diventa Ds.
POLITICHE
2008 = 33,2%; I voti, alla Camera, al Partito democratico, nato dall'unione di
Ds e Margherita.
Cangini andrea - Giorno/Resto/Nazione
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Vent’anni fa, Rifondazione comunista
Vent’anni fa,
domenica 3 febbraio 1991, una novantina di delegati abbandonarono la sala del
XX congresso del Pci, che si teneva a Rimini, per non partecipare allo
scioglimento del Pci e alla nascita Pds.
Immediatamente convocarono una
conferenza stampa in cui Sergio Garavini, Armando Cossutta, Lucio Libertini,
Ersilia Salvato e Rino Serri annunciarono la decisione di dar vita ad una
formazione comunista.
I cinque, insieme a Guido Cappelloni
e Bianca Bracci Torsi, si recarono quindi dal notaio per registrare il simbolo
del Pci, segnalando anche sul piano legale la volontà di proseguire l’impegno
politico in quanto comunisti e comuniste.
Una settimana dopo, al teatro
Brancaccio di Roma, migliaia di compagni e compagne parteciparono alla prima
assemblea di massa di quello che divenne il Movimento per la Rifondazione
Comunista. Al Brancaccio venne esposta una enorme bandiera rossa, realizzata
cucendo insieme centinaia e centinaia di bandiere e costruendo così, da basso,
la più grande bandiera rossa mai realizzata.
Credo che oggi a quegli uomini e a
quelle donne che hanno dato vita a Rifondazione comunista debba andare il
nostro ringraziamento. Innanzitutto per il coraggio di andare controcorrente in
una fase in cui, dopo la caduta del muro di Berlino, il capitalismo sembrava
aver vinto la partita definitiva.Erano gli anni in cui Fukujama
proclamava la “fine della storia” e in cui il capitalismo veniva presentato,
prima ancora che invincibile, come un dato naturale. Se l’anticapitalismo non è stato soffocato in Italia è stato anche grazie a
quella scelta.
Penso che il nostro ringraziamento
vada espresso anche per il nome scelto: Rifondazione comunista. Tanti erano i nomi possibili e forti erano le spinte a
caratterizzare una nuova formazione comunista semplicemente come la
prosecuzione dell’esperienza precedente. Nella scelta del nome vi fu invece
una precisa scelta politica che riteniamo valida ancor oggi. Comunista, perché siamo comunisti e comuniste che si battono per una società di
liberi e di eguali che si può realizzare solo superando il capitalismo.
Rifondazione, perché consapevoli che nella sua storia il movimento comunista ha
compiuto molti errori ed in particolare che le esperienze del socialismo reale
sono fallite, dando vita a regimi che contraddicevano radicalmente gli ideali
comunisti.
Non quindi semplicemente la
ricostruzione di un partito comunista, ma Rifondazione comunista nella
consapevolezza che i due termini si qualificano a vicenda, e che solo una
rifondazione teorica e pratica del comunismo avrebbe potuto porsi efficacemente
l’obiettivo di superare “sul serio” il capitalismo. In questo senso
rifondazione comunista non ha dato vita solo ad un partito ma ha esplicitato
una indicazione generale, chiara, sulla necessità della rifondazione del
comunismo.
Accanto ai primi soci fondatori
molti e molte altre si aggiunsero nei mesi successivi e Rifondazione divenne un
crogiuolo in cui diversi spezzoni ed esperienze politiche della sinistra di
classe e comunista confluirono. La costruzione del Movimento prima e
del Partito poi, fu una grande esperienze di dialogo e riconoscimento che
riguardò in primo luogo decine e decine di migliaia di militanti che provenendo
da storie diverse impararono a dialogare, a confrontarsi, a cercare
collettivamente nuove strade.
Questo elemento della partecipazione
dal basso è un elemento caratterizzante non solo la nascita, ma tutta
l’esperienza di Rifondazione. Nel bene e nel male rifondazione non è stato solo
un fenomeno politico ma è stata una esperienza di popolo, uno spazio pubblico,
si direbbe oggi. Lo voglio ricordare perché la storia di Rifondazione
rappresenta l’esemplificazione di uno degli slogan che il movimento si dette
sin dall’inizio: liberamente comunisti.
Credo che in nessun partito italiano
gli iscritti, la cosiddetta base, abbia contato quanto ha contato in
Rifondazione. In tutti i momenti di scelta e di scontro – e non sono stati
pochi – alla fine ha sempre prevalso l’orientamento dei compagni e delle
compagne iscritte anche sulle prese di posizione dei massimi dirigenti. Se vogliamo ricercare una conferma
che il termine rifondazione è stato preso sul serio, lo possiamo trovare
proprio in questo, nel non identificare il partito con i suoi gruppi dirigenti
e nel mettere al centro della vita del partito la partecipazione.
Oggi, a distanza di vent’anni,
vedendo come sono finiti il Pds e poi i Ds e poi il Pd, si può apprezzare fino
in fondo la giustezza della scelta dei fondatori di Rifondazione. La cui ragione di esistenza non sta
però solo nel fallimento delle esperienze politiche nate dallo scioglimento del
Pci o nel nostro essere soggettivamente comunisti e comuniste. La ragione di fondo della nostra
esistenza la troviamo al di fuori di noi e precisamente nella crisi
capitalistica che è li a ricordarci come questo non sia il migliore dei mondi
possibili. Il fondamento ultimo della nostra
esistenza sta proprio li, nell’incapacità strutturale del capitalismo di dare
una risposta ai bisogni dell’umanità e alla coniugazione del vivere civile con
la limitatezza delle risorse del pianeta su cui viviamo. La drammatica alternativa tra
socialismo e barbarie che si ripresenta oggi, ci dice di come l’esigenza del
superamento del capitalismo sia più urgente che mai. Per questo noi, uomini e
donne liberamente comunisti, vogliamo proseguire lungo il cammino intrapreso.
Paolo Ferrero - Liberazione